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Riflessioni sul "buon selvaggio"

Questa mattina leggo il racconto di un gruppo di escursionisti che, nel 2015, si trovano a passare da Roghudi vecchio, forse uno dei borghi abbandonati più famosi e spettacolari d'Italia.

In una casa di una località isolata fuori dal paese vivevano ancora fratello e sorella, in piena solitudine e sostanziale autosufficienza, ma in condizioni che oggi anche i più legati alla vita ai ritmi di una volta considererebbero accettabili.

Il racconto originale lo trovate qui, così come le immagini che ho preferito non mettere sul blog, sia per rispetto della proprietà intellettuale che perché, non mi vergogno a dirlo, le ho trovate un po' "invadenti". Insomma, non mi andava di metterle qui, ma se volete andatele a vedere.

Quante volte noi, appassionati di una vita un po' più lenta, siamo stati portati a pensare che si stava meglio una volta? Intendiamoci, molto spesso lo penso anche io.

Un mondo con ritmi più naturali, con più difficoltà pratiche ma meno soggetto all'omologazione, credo fermamente sia preferibile allo standard occidentale di oggi.

Ma questo racconto e le immagini che lo accompagnano colpiscono come un cazzotto allo stomaco, ricordandoci improvvisamente che la vita di una volta non era solo correre tra i fiori e parlare con gli animali. Era anche sofferenza, mancanza di assistenza medica di base, solitudine, povertà.

Come spesso succede, la soluzione dovrebbe essere la giusta via di mezzo: una vita più semplice, meno standardizzata e vicina ai ritmi naturali, che però accolga, senza finte ipocrisie, quanto di buono la modernità ha portato con sé.

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