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I rifugi che scompaiono

Sentendo la parola rifugio, la reazione è duplice, e dipende dal rapporto che la persona ha con la Montagna.

Chi ha frequentato la montagna in ottica alpinistica (in senso lato) probabilmente pensa a una calda stanza al termine di una faticosa giornata, magari con vento teso e sotto la pioggia. Alle sveglie prima dell'alba con colazione abbondante ma goduta poco, vuoi per il sonno e vuoi per le piccole e grandi preoccupazioni per la giornata ancora da cominciare. Alle lunghe serate giocando a carte e bevendo grappa, raccontando a perfetti sconosciuti incontrati dieci minuti prima la giornata appena trascorsa e quella che verrà. Per chi invece ha vissuto la montagna da turista, l'immagine mentale è quella di una sala da pranzo rigorosamente rivestita in legno, i tavoli apparecchiati con tovaglie dalle grafiche tipicamente tirolesi, una cameriera con le trecce bionde e il drindl e una abbondante libagione che parte coi canederli e termina con lo strudel. Sì, la grappa c'è anche qui!



Fissiamo subito un punto fermo di partenza: il turismo è un bene. Anche coloro che oggi sparano a zero sui turisti alpini (o appenninici...) hanno cominciato, a un certo punto della loro vita, proprio come turisti. E tuttora, ogni tanto, al ristorante e in funivia ci vanno. Il problema è che, e così arriviamo al nocciolo della questione che ci sta a cuore discutere oggi, è sempre più difficile trovare i rifugi del primo tipo. Insomma: i veri rifugi. Perché è un dato di fatto che i rifugi, piano piano, scompaiono.

Ci sono mille ragioni per questo. Alcune sono meramente pratiche. Le spese sono aumentate anche solo per tenere aperto, perché la normativa attuale impone locali e impianti a norma, personale formato, rispetto di determinate procedure igienico-sanitarie. Altre sono culturali. Se fino a vent'anni fa il rifugio era, per la metà degli avventori, un punto di partenza o di appoggio, oggi per la quasi totalità è un punto di arrivo. Gira che ti rigira, spesso il rifugista deve avere un'offerta attrattiva e ad alto margine anche solo per campare, e non necessariamente per diventare ricco. Ecco, in poche righe, perché i rifugi scompaiono. Però parliamoci chiaro: escursionisti e alpinisti rimpiangono i rifugi di un tempo. E non solo per la nostalgia dei bei tempi andati. Quando chi scrive aveva vent'anni, il concetto di prenotazione in rifugio era, semplicemente, un ossimoro. In rifugio ci capitavi: presto perché eri stato più veloce del previsto o tardi perché erano successi mille imprevisti. Soprattutto ci capitavi sotto la tormenta, perché, in fondo, quel nome rifugio in italiano ha un significato ben preciso. Ebbene, oggi scordatevi di fare una settimana di traversata e contare sui rifugi in caso di maltempo, perché in caso di maltempo i rifugi... chiudono (i turisti, al rifugio, mica ci vanno se piove).

Se non avete prenotato e non c'è posto, in rifugio non entrate. Sia chiaro, non perché il rifugista è un uomo senza cuore; semplicemente perché la normativa, come per qualsiasi ambiente pubblico, vieta di ospitare più persone di quella che è la capienza massima. Poi, ovviamente, che sia più pericoloso trovare un'alternativa a 2300 metri di quota col buio e la pioggia e dieci ore di cammino nelle gambe non interessa a nessuno (falso, perché grazie al cielo ci sono ancora rifugisti che un posto te lo fanno saltare fuori, alla faccia della normativa). Ecco, una volta c'era addirittura il listino separato tra chi trovava posto in branda e chi, arrivato tardi, veniva alloggiato su panche e tavoli in sala da pranzo: il rifugio era un rifugio, appunto...

Chi scrive rimpiange il menu dei bei vecchi tempi: minestrone o pasta al ragù. Perché sono i piatti perfetti per rifocillarsi dopo la fatica (magari abbinati a polenta e formaggio fuso, altro must e completamento del suddetto menu) e perché mangiare in rifugio così costava poco, era una cosa alla portata di studenti squattrinati, alpinisti sempre in bolletta o semplici amanti di una vita lontana dai fronzoli cui già ci si deve attenere nel quotidiano. Chi di voi sa che, ancora oggi, nei rifugi CAI è previsto il "piatto alpinistico"? Credo quasi nessuno. Vi posso assicurare che in molti rifugi CAI non lo sa nemmeno il rifugista. Avete provato a dover partire per una lunga tappa e chiedere la colazione alle sei di mattina? Ecco, ultimamente nella quasi totalità dei rifugi la colazione si serve dalle otto. Le otto sono quell'ora in cui, in montagna, solitamente si fa la prima sosta, altro che la colazione... Ecco perché, forse, sarebbe giunto il momento di chiamare le cose col loro nome. I rifugi, ormai, sono davvero pochi. Ci sono ottimi ristoranti, sulle nostre montagne. Attrezzatissimi alberghi. Contro cui chi scrive non ha assolutamente nulla, anzi: ognuno abbia il suo spazio. Ma i rifugi scompaiono a un ritmo impressionante, e il loro spazio lo meritano anche escursionisti e alpinisti. Uno spazio che sia aperto anche nelle giornate di pioggia (anzi, soprattutto in quelle, perché è proprio quando mi serve il rifugio, col suo minestrone fumante e la stufa a legna accesa). Quelli con la colazione preparata dalle stesse mani che hanno appena caricato di legna la stufa, sporche di fuliggine. Quelli in cui si dorme in quaranta in una camerata (sì, camerata! Mica la stanzetta privata da due con vetrata panoramica) da venti. Io li rivorrei.

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